La storia della fotografia digitale inizia nei laboratori della Kodak, negli anni ’70. A quel tempo al ricercatore Steven Sasson fu chiesto se fosse possibile ricavare un’immagine da un sensore CCD che era stato inventato nel 1969 dai laboratori della Bell. Il primo scatto fu eseguito a 0,01 megapixel, in bianco e nero. Nel 1978 fu depositato il brevetto, e la prima fotocamera digitale venne commercializzata nel 1981 (Sony Mavica FD5). Da allora, l’ascesa del digitale nel mondo della fotografia non si è più fermata.
Al netto delle raffinatezze tecnologiche, il concetto alla base della fotografia digitale è abbastanza semplice: una matrice di punti fotosensibili produce una certa carica elettrica quando uno o più di questi punti viene colpito dalla luce. Il messaggio elettrico viene poi convertito in immagine, e il gioco è fatto. Il processo è del tutto analogo a quello di un fax o di una fotocopiatrice.
Foto ingrandita di un sensore fotografico.
Il colore viene reso grazie a una matrice di punti con un certo schema, chiamato Schema Bayer. In questo schema il 50% dei punti è verde, mentre il restante 50% viene egualmente ripartito tra rosso e blu. Il motivo di questa dominanza verde è che questo schema è quello più fedele alle caratteristiche dell’occhio umano. Laddove il corrispondente colore manca, esso verrà ricostruito per interpolazione dai punti adiacenti (processo questo detto anche “demosaicizzazione”).
Schema Bayer
Per quanto riguarda il resto dei componenti, una fotocamera digitale è del tutto simile a una fotocamera tradizionale a pellicola, col vantaggio però di poter visualizzare immediatamente l’immagine catturata, e di non avere costi aggiuntivi dovuti allo sviluppo.
La maggiore o minore qualità dei componenti naturalmente fa la differenza, anche di costo, dei vari dispositivi in commercio.
Ecco gli elementi che contribuiscono ad una maggiore qualità dei dispositivi:
Dimensioni e qualità del sensore (banalmente, più è grande e migliori saranno le foto)
Qualità delle ottiche (la lentina di plastica di una fotocamera compatta o di un cellulare ovviamente non è uguale alla lente in cristallo delle ottiche più blasonate)
Qualità delle parti elettroniche o meccaniche
Qualità degli algoritmi di elaborazione dell’immagine
Non ho citato volutamente i megapixel. La ragione è semplice: non sono quelli a fare la differenza. La mia vecchia e purtroppo defunta Canon PowerShot A10 aveva un sensore da 1.3 megapixel, ma faceva foto di una qualità che oggi i migliori smartphone di fascia media a 20 mpx possono solo sognare. I megapixel influiscono solo sulle dimensioni finali dell’immagine, ma non sono affatto un indicatore affidabile della qualità dell’immagine stessa. Non fatevi fregare. La qualità deriva sempre dall’ottica e dalle dimensioni del sensore. Punto.
La dimensione fisica del sensore è molto importante, e spiego perchè: la matrice CMOS (la più utilizzata sulle fotocamere) è molto sensibile. Quando i singoli punti sono un po’ stretti, iniziano a creare delle interferenze. Ne consegue quindi che più il sensore è piccolo, maggiori sono le interferenze, che alla fine influiscono sul risultato dell’immagine.
Le webcam dei vostri pc per esempio hanno dei sensori piuttosto piccoli. Quindi vanno benissimo per registrare immagini in movimento, come durante una videoconferenza. Ma provate a scattare una foto, e vedrete che il risultato sarà pessimo. E non è una questione di megapixel.
La stessa cosa vale per gli smartphone, con una importante eccezione: qui quello che conta davvero è il software che rielabora il risultato dell’acquisizione dell’immagine. Infatti, molto pochi sono gli smartphone che consentono di catturare immagini RAW (ovvero non rielaborate). La ragione è semplice: non sarebbero un granchè.
Un esempio. Questa foto è stata ripresa con uno smartphone, tra l’altro uno di quelli abbastanza seri dal punto di vista del comparto fotografico. Uno Huawei P9 Plus con ottica Leica:
Ho evidenziato i difetti: una riflessione degli oggetti sulla parte bassa e artefatti nel cielo.
Questa invece è stata catturata con una fotocamera bridge, una FujiFilm S6500FD
Nonostante lo zoom al massimo, nessuna riflessione e cielo quasi perfetto. Possiamo fare tutti i confronti del caso, ma una vera fotocamera batterà SEMPRE il miglior smartphone. Le dimensioni contano !
Qui ovviamente, oltre al software di elaborazione, entra in gioco anche la migliore ottica.
Prima ho parlato di formato RAW. Si tratta di quello che in fotografia digitale è definito come “negativo digitale”. Si tratta cioè dell’immagine così come è stata catturata dal sensore, senza ulteriore elaborazione. I professionisti si affidano ovviamente a questo formato per ottenere il massimo dalle loro foto.
Visti i componenti basilari, possiamo ora addentrarci un po’ nella parte più creativa del processo, analizzando qualche concetto che fa sempre comodo conoscere. Ciò che segue ovviamente si applica in egual modo a fotocamere digitali e tradizionali a pellicola, ammesso che ci sia ancora qualche non professionista che ancora le utilizza.
La fotocamera digitale non differisce da quella tradizionale dal punto di vista strettamente “tecnico”. Regole come lunghezza focale, profondità di campo, tempi di esposizione e diaframmi sono gli stessi. Per gli smartphone si fa un discorso a parte, pur disponendo anch’essi di modalità manuali, che permettono di scegliere tempi e aperture, sebbene con evidenti limiti.
Più o meno tutti sappiamo come funziona una fotocamera: la luce entra dall’obiettivo, una lente la concentra sulla pellicola o sul sensore, e quindi l’immagine viene registrata. Sulla pellicola stessa oppure in una scheda di memoria, dopo la rielaborazione.
Ecco il primo elemento basilare della fotografia: la luce. La luce è l’essenza stessa della fotografia. Essa vive di luce. E’ quindi fondamentale saperla padroneggiare e dosare. A questo pensano spesso gli automatismi, come l’esposimetro. Questo dispositivo, in base alla lettura della quantità di luce disponibile, regola automaticamente tempi e diaframmi per ottenere il risultato migliore. E diciamo che nel 70/80% dei casi ci riesce anche bene.
Nei restanti casi però, sta a noi valutare eventuali interventi manuali. Ecco qualche caso in cui l’esposimetro viene ingannato e porta a risultati piuttosto deludenti:
Foto sulla neve
Foto sulla sabbia
Foto controluce
Foto su superfici molto riflettenti
In tutti questi casi il risultato sarà sempre una foto sottoesposta. La ragione è semplice: l’esposimetro registra troppa luce, diretta o riflessa, e quindi tende a chiudere il diaframma. Poca luce porterà nel migliore dei casi ad avere una neve grigia, o un soggetto troppo scuro.
Ecco un esempio:
Qui l’esposimetro è stato ingannato dal cielo molto luminoso, e il risultato è una strada molto scura e alberi privi di dettagli. Questo è un caso limite, ma rende l’idea.
In quest’altro esempio l’esposimetro ha azzeccato la giusta esposizione, ma per farlo ha dovuto aumentare il valore ISO (ovvero la sensibilità del sensore) abbassando così la qualità della foto, che appare sgranata.
Questi sono esempi presi da foto scattate con uno smartphone, ma lo stesso concetto vale per le fotocamere. Ecco qualche altro esempio con una fotocamera:
Nikon Coolpix S9600
Il cielo troppo luminoso ha reso la foto grigia e piatta. Ecco la stessa foto dopo una operazione di ripristino dei valori corretti di luminosità e contrasto:
Dopo qualche doveroso esempio, tanto per inquadrare il problema, la domanda è: come ci si regola sostanzialmente per i problemi dovuti alla luce ? Ecco qualche consiglio:
Fotometria
La fotocamera di solito offre qualche opzione per scegliere il criterio col quale l’esposimetro misura la luce ambientale. Le opzioni principali sono principalmente:
Multi – esegue la misurazione in più punti della scena per trovare quello che definirei “il punto di equilibrio” – va bene per condizioni di luce molto varie, in cui vi sono punti molto illuminati e punti in ombra.
Spot – esegue la misurazione al centro dell’obiettivo
Media – esegue una media delle misurazioni, ed è utile in scenari in cui la luminosità è abbastanza uniforme.
Questa è una prima regolazione, che potete effettuare normalmente su qualsiasi fotocamera, anche entry level, come le compatte point and shoot, le bridge, o addirittura qualche smartphone. Ovviamente dovete adattare i settaggi all’esigenza del momento. L’esperienza poi vi guida alla giusta scelta. Fate delle prove, tanto con la digitale non costa niente.
Compensazione di esposizione
Questo è un trucchetto molto utile per forzare la fotocamera ad accettare impostazioni di luminosità diverse da quelle registrate dall’esposimetro, soprattutto quando questo viene “ingannato” dalle particolari condizioni di luce che vengono registrate dal sensore. Di solito ha questo simbolo:
Quando inquadrate una scena, e vi accorgete di una eccessiva (o scarsa) luminosità, potete agire su questo comando per compensare la misurazione. Insomma, una specie di override. Faccio un esempio pratico.
Questa foto è stata scattata utilizzando la compensazione di esposizione:
Ho dovuto compensare aumentando la luminosità, in quanto il chiarore del cielo nella parte alta dell’immagine, laddove tentavo di mettere a fuoco, tendeva a sottoesporre il resto. Aumentando di un paio di valori, il tutto ha assunto una luminosità più armoniosa, ed evidenziando i particolari anche nelle parti più scure.
La stessa cosa ovviamente può essere fatta diminuendo la luminosità nel caso la foto sia eccessivamente sovraesposta. Anche qui, potete fare delle prove in condizioni limite per ottenere un risultato che sia accettabile. Ricordatevi comunque che una eccessiva luminosità, così come una luminosità troppo ridotta, tende ad appiattire l’immagine per chè si ha una perdita di contrasto. Lo vedete bene nell’esempio del rifugio sopra. La prima foto è piatta, non ha contrasti.
Sensibilità
Il sensore può imitare le caratteristiche che sono proprie della pellicola adottando il sistema ISO per la sensibilità. Le pellicole uscivano con un parametro che si chiama ISO. Il numero stabilisce la sensibilità alla luce, ed è in scala logaritmica. I valori sono :
Da 25 a 64 ISO sono definite pellicole lente
Da 125 a 400 ISO sono definite pellicole di moderata o media rapidità
Sueriori a 500 ISO sono definite pellicole rapide
Con rapidità si intende ovviamente il tempo richiesto alla pellicola, o al sensore, per impressionarsi. A questo punto direte: fantastico. Scelgo una sensibilità ultrarapida così non corro mai il rischio di avere foto sottoesposte (troppo scure) anche in condizione di luce scarsa.
Sbagliato! Nella pellicola tradizionale, la rapidità era ottenuta facendo in modo che i granuli di ossido d’argento nell’emulsione fossero più grandi, Il risultato finale però era un’immagine “sgranata”. L’effetto era proprio dovuto alla maggiore dimensione dei granuli rispetto a una pellicola più lenta.
Il sensore di una fotocamera digitale ha lo stesso inconveniente: ISO più alti portano a immagini più confuse, poichè si incrementa la già alta sensibilità di ogni singolo punto della matrice. Alcuni sensori sono migliori di altri e tendono a compensare, però alla fine un ISO troppo alto compromette sempre la qualità dell’immagine, specialmente su sensori di ridotte dimensioni. La soluzione ? Mantenere un ISO basso, e adottare tempi di esposizione lunghi, o grandi aperture. Nel primo caso se il tempo di esposizione va oltre 1/60 di secondo (definito tempo di sicurezza) bisogna ricorrere a uno stativo (o cavalletto). Nel secondo caso dipende dall’ottica utilizzata. Non tutte le ottiche, tantomeno gli zoom, permettono aperture eccessive. E’ un limite fisico. Ma di questo parlerò in seguito.
Sta a voi provare quale è l’impostazione ISO più alta che vi consenta di ottenere immagini accettabili. Per esempio io con la mia FujiFilm S6500FD non vado mai oltre i 600 ISO perchè poi i disturbi superano di gran lunga i vantaggi sull’uso di uno stativo.
Ogni fotocamera è diversa, quindi provate, provate, provate.
Ecco qui un paio di esempi sul risultato che potete ottenere variando il valore ISO:
Foto a 500 ISO:
Foto a 3200 ISO
Si vede che la quantità di disturbi, soprattutta nell’area grigia, è maggiore nel secondo caso. In entrambe le immagini comunque la quantità di disturbi è molto elevata.
Diaframma
Il diaframma regola la quantità di luce che raggiunge il sensore. Inoltre, come effetto secondario, modifica anche la profondità di campo. Questo però lo vedremo in seguito.
Il diaframma ha un indice che si chiama numero f, tale numero è inversamente proporzionale all’apertura dello stesso. Quindi numeri più piccoli indicano aperture più ampie, e viceversa.
Ecco una piccola rappresentazione, per chiarire:
Il range di diaframmi disponibili dipende dalla fotocamera e dall’ottica installata. Le più economiche avranno un range più ristretto rispetto a quello più costose. Altro particolare da tenere in considerazione è il fatto che focali lunghe (come gli zoom o gli obiettivi fissi dai 100mm in su) dispongono di un range più limitato dovuto al fatto che la luce che raggiunge il sensore deve fare più strada e quindi se ne perde un po’. Quindi a meno di non spendere migliaia di euro per una focale lunga, non disporrete mai di grandi aperture e dovrete quindi fare affidamento su tempi più lunghi o ISO più elevati.
Il diaframma si usa anche per ottenere il famoso effetto bokeh, ovvero avere a fuoco soltanto il soggetto e ottenere la sfocatura dello sfondo. Questo si ottiene sfruttando la massima apertura possibile del diaframma, in modo da accorciare il più possibile la profondità di campo, ovvero la zona della scena che risulta a fuoco. In linea generale, a parità di lunghezza focale, avrete una pdc lunga con diaframmi più chiusi e viceversa molto corta utilizzando apreture ampie. E’ esattamente come strizzare gli occhi quando si è ipovedenti: la messa a fuoco generale migliora.
Ecco uno schema esemplificativo:
Molti obiettivi dispongono di una comoda scala di profondità di campo, per permettervi di capire quale sarà l’area di messa a fuoco:
In questo caso selezionando f 8 (nel cerchio), avremo messo a fuoco un’area compresa tra circa 8 m e 13 m. Tutto ciò che sarà al di fuori di questo range NON sarà a fuoco.
Ah, la distanza focale è la distanza che intercorre tra la lente e il punto di messa fuoco dell’immagine:
Finisco qui la prima parte della trattazione, che si è fatta già molto lunga. Nel prossimo articolo parleremo di tempi di esposizione e di qualche altra cosa.
Spero di avervi incuriosito, e naturalmente vi do appuntamento alla prossima uscita.
Ciao!
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